Essere provinciali

Leggendo un post sul blog “memoriediunavagina“, mi sono reso conto quanto il mio essere provinciale abbia pesato sulle mie esperienze nella Grande Città. A questo punto, vi starete chiedendo per quale cazzo di motivo legga un blog con quel nome. La verità è semplice: mi sta simpatica (nonostante non conosca e non abbia la più pallida idea di chi sia) la tizia che ci scrive. Riesce sempre a strapparmi un sorriso e oggi mi ha dato modo di scrivere questo post…Anche se, a quest’ora, Morfeo mi chiama e io dovrei rispondere.

Quando parlo della Grande Città, non posso fare altro che riferirmi a Milano. Sì, la stessa Milano che fino a tre anni fa non potevo vedere e che mi ispirava un senso di panico immenso. La stessa Milano in cui ho perso svariate volte i guanti mentre ero in giro con la scuola. La stessa Milano che adesso conosco quasi come le mie tasche (almeno tra Cadorna e San Babila). La stessa Milano da cui ora non riesco a star troppo lontano. La stessa Milano che è una piccolissima parte di me così come io sono una piccolissima parte di lei.

Comunque dicevo che il mio esser provinciale, nonostante tutto, abbia sempre influito sul mio modo di vivere la città. Ho sempre visto (e continuo a vedere) Milano come una giungla piena di opportunità ed insidie. All’inizio c’era una sorta di timore reverenziale nei suoi confronti. Ero come un bambino in un posto nuovo: non conoscevo niente e volevo scoprire tutto. Ovviamente, la cosa non sarebbe potuta durare a lungo e difatti, dopo solo qualche mese, al timore reverenziale si era sostituito il grigiore dell’abitudine: Svegliati. Prendi il treno. Scendi in Metro. Sgomita per entrare. Cerca di trattenere il respiro. Sgomita per uscire. Università. Metro. Sgomita per entrare. Sgomita per uscire. Prendi il treno. Ritorni in provincia.

L’abitudine…L’abitudine temo che sia una delle cose peggiori che ci possa essere. L’abitudine nei rapporti (e non la stabilità, che è una cosa ben diversa)  può portare solo ad un risultato: la morte dello stesso. È inevitabile. L’abitudine annoia e, annoiandosi dell’abitudine, si finisce con l’annoiarsi delle persone con cui si ha un rapporto basato sull’abituale, sulla routine. E poi, ovviamente, c’è l’altra faccia della medaglia: quella che ti fa venire un pizzico d’ansia appena capita un imprevisto, appena qualcosa non va come previsto. Ma sto divagando.

Dunque tornando a noi, dicevo che questo essere provinciale mi ha sempre fatto vedere con occhi diversi la città. Per un Milanese, tante cose sono scontate. Anche per chi abita a Milano abitualmente (anche se non originario di lì) il discorso è assimilabile. Per me, invece, non è così. Vedere Milano di sera è stato qualcosa che mi ha lasciato piacevolmente stupito. I tram illuminati a festa, la città che si accende, la gente per strada che passeggia e non corre (o forse ero io a non correre, ancora non mi è chiaro) sono stati spettacoli unici, che mi hanno rapito per qualche secondo. Come mi aveva rapito il ragazzo che ad un angolo di strada stava suonando l’arpa e a cui, devo ammetterlo, fui tentato di allungare qualche spicciolo (cosa che normalmente segnalerebbe l’arrivo dell’Apocalisse, del Ragnarok e la fine dei tempi). Insomma, quella sera mi aveva rivelato una faccia di Milano che non conoscevo eppure…

Eppure, per quanto ora possa “amare” Milano, la mia bella e tranquilla provincia mi ammalia con armi diverse. Mi affascina con spettacoli differenti. Probabilmente è, ancora una volta, la forza dell’abitudine a farmi preferire la mia “piccola” provincia alla grande città. Sia chiaro, qui da me non c’è un cazzo. A momenti non saprei nemmeno trovare la biblioteca (ed infatti, vado a quella di Meda. E, per inciso, pure a Meda non c’è un cazzo) però è qui che ho sempre vissuto. È qui che ho dato il mio primo bacio (e anche uno degli ultimi, eh) è qui che ho conosciuto alcuni tra i miei migliori amici. Ed è qui che ho preso delle sonore inculate (in senso figurato).

E poi, inutile negarlo, qui c’è molta più calma. Più tranquillità. A Milano è quasi impossibile sentir cantare gli uccellini (i piccioni non contano, sono topi con le ali), mentre qui il canto di passerotti e merli ti accompagna dalla stazione fine a casa tua. E poi ci sono i ricci che ti scorrazzano in giardino e il cane che li guarda stranito (con lo sguardo da psicopatico che solo lui sa fare) ma non li tocca e, ogni tanto, ti spunta pure una rana che gracida tranquillamente di fronte al cane che inizia ad abbaiare anche se sono le tre di notte. (No, non abito in Burundhi, sono solo fortunato ad avere un bel giardino). E poi c’è il Parco delle Querce dove poter fare un pranzo all’aperto con gli amici, una passeggiata in un pomeriggio soleggiato oppure dove sedersi all’ombra e leggere immerso nella natura (ma per davvero) un libro od un fumetto.

So che non potrò restare sempre qui, che prima o poi arriverà il momento in cui sarò costretto ad andarmene e, nonostante questa consapevolezza e la voglia di distaccarmi da tutto questo, non posso fare a meno di essere titubante come Samvise Gamgee che, giunto ai confini della Contea, esita prima di compiere l’ultimo passo che lo porterà lontano da tutto ciò era stata la sua vita e la sua realtà fino a quel momento. Lui, alla fine è tornato a casa. Chissà io che farò…

Sarò come Bilbo che, mentre si mise in cammino, cantava, pronto per la nuova avventura:
“La Via prosegue senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte.
Ora la Via è fuggita avanti,
Presto, la segua colui che parte!
Cominci pure un nuovo viaggio,
Ma io che sono assonnato e stanco
Mi recherò all’osteria del villaggio
E dormirò un sonno lungo e franco”

Oppure il distacco sarà qualcosa di forzato e di doloroso? Non lo so. Non lo so proprio.

Nel dubbio spero che, comunque, il mio viaggio sia così:

“Voltato l’angolo forse ancor si trova
Un ignoto portale o una strada nuova;
Spesso ho tirato oltre, ma chissà,
Finalmente il giorno giungerà,
E sarò condotto dalla fortuna,
A Est del Sole, a Ovest della Luna.”

Una cosa è sicura, comunque, quello che mi ha dato questa piccola provincia, probabilmente nessun altro posto potrebbe darmelo.

Con questa riflessione conclusiva e le due citazioni tolkeniane, porgo ossequi.

Cya.

4 commenti

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4 risposte a “Essere provinciali

  1. Francesco

    Me ne vado me ne vado me ne vado ad Amsterdam, AMSTERDAAAAAAM! AMSTERDAAAAAM!

  2. ellaneivicolipersa

    ahhahahhahahha
    bè lo stregone l’hai conosciuto..
    occhio a Gollum!

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